Memories
Come eravamo...
Tanti anni orsono, precisamente a fine 1989, con un piccolo gruppo di amici appassionati di storia militare, wargames tridimensionale e boardgames, uniformologia e polemologia, decidemmo di dar vita ad una rivista amatoriale sugli argomenti di nostro interesse: "Panoplia".
Il n.O, in tutto 32 paginette in bianco/nero, venne diffuso in omaggio a circa 200 tra iscritti alla allora Lega Italiana Wargame e ad un limitatissimo numero di negozi di modellismo militare, grazie anche e soprattutto all'aiuto di un tipografo che stampò a credito quel nostro primo lavoro.
Non eravamo ottimisti, ma sbagliavamo! Si abbonarono in circa 150, il 75% dell'indirizzario, un successone ai nostri ingenui occhi!
Ci entusiasmammo e la cosa continuò in crescendo a prendere corpo. Le pagine aumentarono prima a 48 poi a 64. Introducemmo il colore e, grazie ad alcune sponsorizzazioni, riuscimmo a comprare un software di impaginazione professionale capace di dialogare direttamente con la tipografia.
Stabilimmo alcune collaborazioni con primarie mostre-mercato nazionali come Militalia, Lucca Comics, Hobby model expo ecc. ecc. che consentirono di aumentare gli abbonamenti e la diffusione dei singoli fascicoli perfino all'estero (San Pietroburgo, Baltimora, Singapore!!!)
Durò in tutto 8 anni, non pochi per una rivistella "di nicchia", a bassa tiratura, forzatamente priva di un distributore nazionale e possibilità pubblicitarie.
Poi, agli anni felici seguirono quelli "pesanti": gli amici, come sempre accade, uno alla volta misero su famiglia e cominciarono a ridurre il loro impegno fino a scomparire. Alcuni di loro, come Pio, Giovanni, Giuseppe e Maurizio, vennero a mancare per malattie gravi lasciando un vuoto incolmabile. Ad altri la vita aveva riservato un futuro in altre città o addirittura all'estero rendendo impossibile la collaborazione. Il sogno di creare una comunità nazionale, senza fini di lucro, perenne e – soprattutto – divertente svanì inseme a tutti loro.
Ma ora nel 2025, 36 anni dopo, come scriverebbe Dumas, l'entusiasmo di Edmond Dantes è tornato grazie ad alcuni vecchi scatoloni rinvenuti in cantina. Scatoloni polverosi, umidicci ma pieni zeppi di cose meravigliose: articoli, soldatini e modelli, illustrazioni, libri, bozze di stampa, corrispondenze, fotografie …
Una serie di telefonate, una pizza insieme come reduci della Vecchia Guardia, che mai doma, non si arrende, eccoci pronti ad un nuovo "alza bandiera", ma questa volta senza sogni e aspettative, solo per divertirci.
Se voi, Giovane Guardia, la pensate come noi, battete un colpo a info@panoplia.it , non chiediamo denaro, non chiediamo applausi ma solo la vostra disinteressata collaborazione al divertimento comune.
LA BATTAGLIA DI POITIERS
di Piero Pastoretto

Poitiers
Una tranquilla, pigra cittadina che si specchia sognante sulle rive del fiume Clain, ricca di edifici e di chiese medievali, come ce ne sono tante in Francia, posta appena a nord della Loira, abitata un tempo dai celti Pictoni che la chiamarono Lemono, capoluogo oggi del Poitou, una regione che, insieme alla Vandea, ha sempre costituito un passaggio obbligato fra due catene montuose, il Massiccio Armoricano e il Massiccio Centrale, che mette in comunicazione l'Aquitania con Parigi e quindi, per la disgrazia dei suoi abitanti, spettatrice nei secoli di numerose battaglie, fra le quali:
- Vouillé (507), tra i Franchi di Clodoveo e i Visigoti di Alarico II;
- Poitiers (732), tra i Franchi di Carlo Martello e i gli arabo-berberi di Abd al-Rahmān;
- Poitiers (1356), fra gli Inglesi di Edoardo il Principe nero e i Francesi di Giovanni II;
- Moncontour (1569), fra gli ugonotti del Coligny e l'esercito cattolico di Enrico III di Valois.
Potendo concederci il lusso di scegliere, soffermiamoci sulla Poitiers del 732.
Poitiers: valore simbolico o valore storico?
La battaglia di Poitiers è uno dei fatti d'arme più esaltati dalla storiografia germanica del secolo XIX° e della prima metà del XX°, che identificava in Carlo Martello e nel suo esercito di Franchi il baluardo insormontabile di petti e di ferro che aveva salvato l'Europa – un'Europa che era appena in procinto di risorgere dalle ceneri dell'Impero romano – dall'invasione musulmana che ne avrebbe snaturato per sempre la cultura.
Poitiers dunque è stata caricata di un valore simbolico e nazionalistico che all'origine non ebbe ed è stata enfatizzata forse molto più del dovuto. La moderna critica, Henry Pirenne in testa, che tende sempre e in ogni caso a smitizzare e diseroizzare certi luoghi comuni del passato, è invece molto più prudente ad attribuire un autentico valore storico ed epocale a questa battaglia. A Poitiers, in sostanza, è stata fermata soltanto une delle tante incursioni musulmane in Europa. Ce n'erano state molte prima e ce ne sarebbero state molte in futuro.
Certo è però che la Spagna, dove non ci fu alcuna Poitiers a fermare i Mori, rimase per secoli sotto il dominio musulmano, e ci volle una guerra di reconquista che coinvolse decine di generazioni di crociati, perché ritornasse cristiana. Per l'esattezza Granada, l'ultima roccaforte araba, si arrese nel 1492, 781 anni dopo che Ṭāriq ibn Ziyād aveva attraversato quelle colonne d'Ercole che da lui avrebbero preso il nome di Gibilterra.
Gli Arabi: un popolo risorto grazie a un uomo
Quando il profeta Muhammad, il nostro Maometto, morì nel giugno del 632, lasciò in retaggio alla sua gente non soltanto una religione monoteistica, ma anche una serie di norme che ne avrebbero guidato per secoli la condotta politica, civile e militare. Innanzitutto l'obbligo della fratellanza non solo fra gli Arabi, ma anche fra tutti i muslim, i "veri credenti" nel Dio unico, indipendentemente dalla nazione, dalla razza o dalla lingua parlata. Maometto sottolineò infatti che tutti i fedeli di Allah costituiscono una comunità, umma, che coincide con la «Casa della Sottomissione», Dar el-Islam, con l'obbligo di reciproca protezione e assistenza. In secondo luogo il compito di propagare la fede a tutto il mondo con l'esempio e con la predicazione. La conversione degli infedeli non era però necessaria: nella pacifica lungimiranza di alcune delle sure coraniche i kafir, ossia i "miscredenti", potevano continuare a vivere nella loro religione e dovevano essere tollerati e rispettati, purché a loro volta rispettassero l'autorità del Corano e pagassero i lievi tributi imposti, quando occupati. Se però i popoli o i loro regnanti si fossero opposti alla pacifica penetrazione e predicazione dell'Islam, allora diventava lecito il jihad per la fede, che doveva debellare ogni resistenza dei nemici di Dio.
In teoria la forza delle armi, ovvero la «Casa della Guerra», Dar el-Harb, doveva essere usata solo in casi eccezionali; nella pratica però, dopo la morte di Maometto, tutti i territori fuori dei confini della Dar el-Islam, la «Casa della Sottomissione» diventarono automaticamente sottoposti alla Casa della Guerra e conquistati con l'invasione violenta.
Dar el-Harb
Alla morte di Maometto avvenne dunque un miracolo dal punto di vista storico, sulle cui origini e motivazioni è inutile qui soffermarsi.
A partire dal 633 l'Islam si catapultò letteralmente fuori dalle sue aride frontiere, e approfittando della debolezza degli imperi bizantino e persiano, esauriti e in declino dopo una lunga guerra che li aveva contrapposti per oltre venti anni (603-628), li sconfisse entrambi. Nel 637, a Qadisiyah, presso l'odierna Bagdad, veniva distrutto l'esercito persiano; nel 674 Mu'awiya, il quinto califfo (letteralmente "successore" di Maometto) cinse d'assedio Costantinopoli per ben tre anni.
Dopo aver abbandonato l'impresa, gli Arabi tornarono all'attacco nel 717. Neanche questa volta presero Costantinopoli, ma l'Impero bizantino dopo di allora era destinato a non più riprendersi.
In settanta anni i cavalieri musulmani giunsero fino all'India a Oriente e conquistarono tutta l'Africa settentrionale a Occidente (705). La Siria, la Palestina e la Persia, a nord, furono le prime province ad essere strappate agli infedeli.
Gli Arabi non possedevano eserciti organizzati come i loro avversari; le loro formazioni erano, ancora all'inizio della loro espansione, un insieme di combattenti di clan e tribù diversi, tenuti insieme dalla fede e sostenuti dalla tradizionale perizia bellica esercitata da secoli nelle contese e nelle faide intestine. La loro guerra, come quella di tutti i popoli nomadi, si basava soprattutto sulla manovrabilità, sull'impeto della cavalleria leggera, e sugli ottimi arcieri di cui disponeva la fanteria. Leggerezza e mobilità, armamento difensivo ridotto al minimo o inesistente del tutto, mentre nella più fredda Europa gli eserciti facevano affidamento da secoli sulla cavalleria e sulla fanteria pesante. Ma vi immaginate una formazione di cavalieri catafratti, o una falange di opliti muoversi in un terreno desertico, sotto un sole martellante e a quaranta gradi di temperatura?
La tattica preferita era quella tipica di tutti i popoli nomadi dell'antichità: l'attacco repentino della cavalleria seguito da una altrettanto rapida ritirata che, traendo in inganno il nemico, gli faceva pensare ad una fuga e lo attirava in un inseguimento fatale che scompaginava le sue file rendendole alla mercé della cavalleria che le massacrava. Si trattava di una tecnica non istituzionalizzata in alcun manuale di arte bellica, ma istintiva e per così dire innata.
In realtà il termine jihad – in lingua araba è maschile e non femminile come invece si ripete – non vuol affatto dire alla lettera «guerra santa», ma piuttosto tensione, lotta interiore e spirituale del credente per migliorare e vincere se stesso, rivolta ad esempio allo studio e alla comprensione dei testi sacri. Era questo nella dottrina islamica il «jihad superiore», al qualeera affiancata, ma in posizione subordinata, la guerra condotta «per la causa di Dio», ossia per l'espansione dell'islam al di fuori dei confini del mondo musulmano, detta appunto il «jihad inferiore». In sostanza però il jihad sin dai primi tempi dell'islamismo è stato inteso come la versione legale e religiosa delle antiche scorrerie e saccheggi che le tribù nomadi del deserto praticavano per tradizione ai danni delle oasi o delle carovane a scopo di sopravvivenza.
Gli Arabi, all'epoca di Maometto, erano poche decine di migliaia, dispersi in relativamente poche oasi di uno dei deserti più vasti e inospitali del mondo e divisi in innumerevoli clan, la cui cultura si concentrava soprattutto nella lingua comune, nella poesia e nella guerra; fieri e pagani animisti, ufficialmente avevano conosciuto diverse dominazioni straniere, che però si erano arrestate alle coste, ai pochi centri urbani e alle vie di comunicazione.
L'Arabia profonda e il suo deserto mortale non interessavano a nessuno; e tanto meno a qualcuno interessavano le bellicose popolazioni che li abitavano.
I Franchi: dalle brume del Nord alla potenza militare
L'Impero romano d'Occidente non era caduto sotto un massiccio attacco dei germani stanziati oltre il Reno, ma in seguito a una secolare migrazione armata e spontanea di innumerevoli tribù in cerca di nuovi territori. La conquista di una provincia derivava spesso da qualche scorreria dopo la quale si insediava un primo stanziamento, da cui partiva poi un'altra incursione verso obiettivi più lontani.
Non potendo esaminare le molteplici circostanze che avevano favorito queste molteplici invasioni che, partendo dal II secolo interessarono tutto il V, mi limiterò a ricordare che nei territori dell'Impero romano vennero lentamente a crearsi degli stati embrionali e instabili in cui il nuovo ceppo germanico conviveva con quello provinciale latinizzato: i cosiddetti regni romano-barbarici.
Uno di questi era il regno dei Franchi, in realtà non un popolo, ma una serie di tribù – Salii, Ripuarii, Sicambri – che occupavano una vasta zona della Gallia settentrionale. Il suo primo re storico fu Clodwig, più noto come Clodoveo, figlio del re dei Franchi Salii Childirich, Childerico, a sua volta, pare, figlio del semi leggendario Meroveo. Egli conquistò il regno del gallo-romano Siagrio, sconfisse gli Alemanni, assoggettò i Burgundi, scacciò i Visigoti oltre i Pirenei e instaurò la dinastia dei Merovingi.
La sua conversione diretta al cristianesimo in forma cattolica anziché ariana gli rese amica la Chiesa latina e le popolazioni celtiche locali, permettendogli di fondare lo Stato più vasto e solido dell'epoca, in grado di rivaleggiare con gli Ostrogoti d'Italia e i Visigoti di Spagna.

Successivamente però l'abitudine germanica di dividere il regno fra tutti i figli maschi del re, creò divisioni e debilitò la monarchia creando quattro Stati nell'antica Gallia romana: l'Austrasia a nord-est, la Neustria a nord-ovest, la Burgundia o Borgogna a sud-est e l'Aquitania a sud-ovest.
Queste quattro regioni erano rette da quattro ministri detti maggiordomi (dal latino maiores domi, maestri di palazzo), ufficialmente sottomessi ai re Merovingi, di fatto signori indipendenti e proprietari di immense fortune fondiarie. Nel 687 Pipino d'Heristal, maggiordomo d'Austrasia, sconfisse la Neustria a Tertry e alla sua morte lasciò il potere al figlio Carlo, destinato a diventare il "Martello" degli arabi a Poitiers.
Gli eserciti germanici dell'epoca non erano ancora, come quelli feudali successivi, basati sulla cavalleria pesante. Solo i nobili possedevano un cavallo e il reddito necessario a fornirsi di un armamento pesante o del piccolo seguito indispensabile ad accudire la cavalcatura e a servire il cavaliere.
Il nerbo dell'esercito era costituito invece dalla fanteria, armata con le armi tradizionali delle tribù di provenienza: una fanteria però robusta e tenace, feroce e barbara, che poteva essere incrollabile se ben guidata ed organizzata.
La francesca

La francesca, o francisca, o Franziska in lingua tedesca e francisque in francese, era un'ascia da lancio in uso presso tutti i germani, ma il suo nome è rimasto strettamente legato al popolo dei Franchi, dai quali era ritenuta l'arma nazionale o distintiva[1].
Lo storico Procopio da Cesarea (490-565), nella sua Storia delle guerre: la guerra gotica, così descrive la francesca dei Goti e il suo uso:
«... Ogni uomo porta una spada, uno scudo e una scure. Ora, la testa in ferro di quest'arma era estremamente solida e resistente su ambo i lati, mentre il manico era corto, e loro sono soliti lanciare sempre queste scuri a un segnale convenuto durante la prima carica, al fine di infrangere gli scudi del nemico ed uccidere i soldati».
La francesca veniva scagliata probabilmente da una distanza non superiore ai dieci-dodici metri, data la mediocre aerodinamicità dell'arma, sembra che un guerriero esperto riuscisse a farla rimbalzare sul terreno per aumentarne la gittata. Era certamente adoperata anche nella mischia corpo a corpo in alternativa alla spada, molto più costosa e quindi non alla portata della maggior parte dei guerrieri franchi.
Molte lame di francesche sono state ritrovate in tombe di guerrieri merovingi e carolingi, per cui non vi sono dubbi sull'aspetto di quest'arma, di struttura e fabbricazione molto semplici ma parecchio efficiente, così costituita:
a: una testa in ferro battuto leggermente obliqua e a forma di S, con il bordo inferiore della lama incurvato verso l'interno a formare un gomito con il manico per meglio sfruttare la forza del movimento rotatorio impresso dal lancio. La lunghezza della lama andava dagli 11 ai 22 cm con un filo di 10. Il peso complessivo delle teste finora ritrovate arriva al massimo a 1,3 chilogrammi;
b: un astile in legno di frassino o di rovere, della lunghezza di 40-45 cm, adatto a essere impugnato da una sola mano.
La francesca, una volta scagliata, veniva ovviamente recuperata dal guerriero. Era considerato infatti assai disonorevole perdere la propria arma in battaglia.
[1] Secondo Isidoro di Siviglia (560-636), Etymologiae, VI, 9, i Franchi deriverebbero proprio da quest'arma il loro nome. La francesca era ancora in uso fra i Sassoni nel 1066 all'epoca di Hastings contro i Normanni di Guglielmo, che nell'arazzo di Bayeux sono invece effigiati con la pesante ascia da battaglia danese, e certamente fu usata a Poitiers contro i Mori.
Come si arrivò alla battaglia
Gli Arabi erano troppo poco numerosi per occupare e mantenere un impero così vasto come quello che avevano conquistato. I califfi, cioè i successori di Muhammad, potevano tuttavia contare sulla miriade di popoli rapidamente islamizzati ed entrati nell'umma, che fornivano un serbatoio inesauribile di guerrieri.
La Spagna e la Settimania visigotica erano state occupate in realtà da relativamente pochi arabi mescolati a tribù berbere islamizzate, che vi si erano insediati e avevano preso ad amministrarla per mezzo di wālī, governatori dipendenti dai califfi omayyadi. Nel 729 fu nominato wālī di al-Andalus, (questo il nome della provincia musulmana) Abd al-Rahmān al-Ghāfiqī, uomo integerrimo e straordinario capo militare, che non perse tempo ad organizzare una spedizione oltre i Pirenei per vendicare il massacro di alcuni distaccamenti musulmani in Aquitania.
Raccolse dunque truppe in tutti i territori di sua competenza e fece inoltre arrivare dall'Africa settentrionale un grosso corpo di splendidi cavalieri berberi ottimamente guidati[1]. L'incursione aveva, come scopo iniziale, soltanto il saccheggio delle fertili terre della Gallia e la spoliazione di chiese ed edifici di culto, ma avrebbe potuto trasformarsi facilmente in un insediamento stabile.
Nel 732 l'esercito musulmano varcò i Pirenei depredando l'Aquitania del duca Eudes, tradizionalmente italianizzato in Oddone, e distruggendo molti luoghi abitati, abbazie e chiese. Obiettivo dichiarato della spedizione era la città di Tours e la sua celebre basilica dedicata a san Martino, ricca di tesori. Oddone, pur essendone rivale acerrimo, ricercò aiuto di Carlo, maestro di palazzo del re merovingio Teodorico IV per l'Austrasia e la Neustria[2]. Questi accettò, purché il comando dell'esercito toccasse soltanto a lui e Oddone accettò. Entrambi, come si soleva, giurarono sulle reliquie dei santi conservate in quella che sarebbe diventata la splendida cattedrale gotica di Reims, in Austrasia.
Carlo, attraverso un banno, raccolse uomini armati non solo tra i Franchi ma da tutte le regioni limitrofe, dai Longobardi d'Italia, ai Burgundi, ai Goti, ai Sassoni, e si apprestò a quella battaglia che gli avrebbe fatto guadagnare il soprannome onorifico di "Martello", l'arma del dio Thor[3].
[1] Per Berberi si intendono una serie di popoli e tribù abitanti fra il Sahara occidentale e la Libia, ancora poco islamizzate e poco arabizzate nell'VIII secolo e parlanti una propria lingua. In origine variamente chiamati Mauri, Massili Getuli e Numidi, successivamente i berberi presero questo nome dalla parola greca barbaroi, barbari, che cioè balbettano la lingua greca, nome ripreso alla lettera dagli arabi con la parola al-Barbar. Invasi nel 685 da 'Uqba ibn Nāfi, quando nel 711 l'esercito islamico occupò la penisola Iberica sotto la guida di Ṭāriq ibn Ziyād la maggior parte dei suoi effettivi era costituita da effettivi berberi e forse era berbero Ṭāriq medesimo.
[2] Alla scomparsa dell'ultimo dei merovingi, l'inutile Teodorico IV nel 737, Carlo Martello assunse direttamente il potere regio e regnò sui Franchi fino alla sua morte nel 741.
[3] Secondo un'altra teoria più diffusa, l'origine dell'appellativo onorifico Martello è il diminutivo di Marte, usato da alcuni cronisti carolingi.
Le forze in campo
I cronisti arabi calcolano in 80.000 gli uomini di Abd al-Rahmān, mentre quelli cristiani descrivono, ovviamente esagerando, in centinaia di migliaia le sue orde. L'esercito di Carlo Martello contava 72.000 combattenti tra fanteria e cavalleria pesante: fra i suoi uomini vi erano guerrieri Franchi, armati più di francesche che di spade, anche perché molto più economiche; Gallo-latini dalle panoplie ancora influenzate dalle loriche dei legionari tardo imperiali, Burgundi, Gepidi, Assiani e Franconi, coperti di pelli d'orso; Sassoni, armati di pesanti spade a due mani; Alemanni, Longobardi e Bavari, armati di lancia; Visigoti a formare la cavalleria leggera; in retroguardia, pare, perfino i Germani delle tribù meno civilizzate e ancora in parte selvagge della Foresta nera, il cui apporto poteva essere soltanto quello della forza bruta e dell'estrema ferocia e sprezzo della morte.

Poitiers
I cristiani attesero il nemico sulla strada romana da Poitiers a Tours, in un luogo oggi chiamato Moussais-la-Bataille, alla confluenza dei fiumi Clain e Vienne, perché il loro schieramento fosse protetto sui fianchi dai corsi d'acqua rendendo impossibile un'azione di aggiramento da della cavalleria musulmana. I due eserciti si fronteggiarono immobili per una settimana, poi si venne alla mischia.
L'esercito franco era privo di ali e si schierò rivolto a sud su un robusto e profondo centro costituito da una prima linea di fanteria pesante franca armata di scudo, francesca e lancia e in seconda da altri fanti di vari popoli armati soprattutto di picche e giavellotti. Nei piani di Carlo, la prima linea avrebbe dovuto rintuzzare soprattutto il centro opposto della fanteria andalusa, mentre la seconda era adatta a respingere la cavalleria berbera. Altri reparti di cavalieri scelti erano in seconda schiera in prossimità dei due corni del centro, come riserva e per evitare aggiramenti.
Sul lato sinistro dello schieramento, e in posizione un po' arretrata, stava infine la cavalleria d'Aquitania comandata da Oddone, ben mimetizzata in un bosco.
Di fronte si dispose l'esercito di Abd al-Rahmān. L'ala sinistra, formata da cavalleria leggera, appoggiata al fiume Clain; il centro, tutto di fanteria e arcieri, sulla via romana verso Tours; l'ala destra di cavalleria, su una bassa collina prospiciente il Vienne.
Dietro alle due ali erano disposte le truppe montate su dromedari per spaventare, con il loro aspetto, e soprattutto con il loro odore sconosciuto e pungente, i cavalli dei Franchi. La formazione era quella tipica a mezza luna, con le cavallerie un po' più avanzate della fanteria e disposte a tenaglia, allo scopo di stringere il nemico sui fianchi e accerchiarlo.
La battaglia, iniziata all'alba, durò fino al tramonto. Gli arabi andarono all'attacco per primi al grido, divenuto tristemente famoso per tanti attentati, di Allah akbar, «Dio è grandissimo», e investirono l'esercito di Carlo Martello con le cavallerie e le fanterie.
In verità le cronache che possediamo della battaglia non sono così precise e analitiche da poter stabilire quando Abd al-Rahmān lanciò all'attacco la fanteria, quando la cavalleria e in quale successione. Dalla diversa qualità della fanteria germanica, fortissima, pesante, massiccia, indubbiamente istruita da Carlo Martello a creare una sorta di siepe immobile irta di lance contro la temibile cavalleria e capace di far strage dei fanti nemici a suon di francesche, rispetto a quella arabo-berbera, mobile sì, ma leggera e mal protetta da una panoplia ridotta al minimo, possiamo dedurre che il wālī usasse soprattutto la cavalleria per infrangere, se possibile l'immobile e possente falange dei fanti franco-germani.
I cavalieri musulmani dovettero perciò caracollare più e più volte davanti alle linee dei fanti subissandole di frecce e molestandole con brevi, violenti e ripetuti assalti, ma senza mai riuscire a spezzare il vallo granitico di scudi, petti e lance. Alternandosi, certo, con l'agile fanteria, che tuttavia poco poteva fare, oltre a immolarsi, contro l torreggianti file dei nemici.
Diversa fu la tattica dei cristiani, che un cronista contemporaneo descrisse come una parete immobile e rocciosa, o meglio, come un «muro di ghiaccio». I guerrieri germani, dietro i loro pesanti scudi, mantennero l'ordinamento profondo a ranghi chiusi e abbatterono con le loro picche, le spade e le francesche quanti arabi arrivavano loro a tiro, ferendo prima i cavalli e finendo poi i cavalieri protetti solo da leggere armature.
La battaglia continuò così per ore, con ondate successive di assalti che si infrangevano come onde contro una scogliera granitica. Inutile si dimostrò anche il tentativo di spezzare la compattezza dell'ordinamento franco con l'abituale tattica dell'al-qarr wa al-farr, l'improvvisa fuga seguita da un rapido dietro front e da un attacco repentino: Carlo Martello non cadde nell'inganno e diede anzi severe disposizioni ai suoi uomini perché si astenessero da qualsiasi inseguimento.
Quando gran parte della cavalleria saracena si era dissanguata, per non dire suicidata sul muro di scudi, lance e asce dei Germani, Carlo diede il segnale convenuto facendo accendere un gran fuoco.
La cavalleria pesante d'Aquitania uscì dal bosco e caricò il fianco destro dei musulmani mettendolo in rotta.
A questo punto l'esercito franco avanzò compatto travolgendo quello opposto arabo e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Alla fine fu il peso ad avere la meglio sulla mobilità
I bruni ed esili fanti saraceni non potevano competere, corpo a corpo, con i biondi giganti del nord, e neppure gli agilissimi e aerei cavalieri contro le pesanti cavalcature, lance e mazze dei Germani. La battaglia si trasformò in una carneficina e i campi di Poitiers in un lago di sangue: tuttavia essa si prolungò sino a notte inoltrata, quando Abd al-Rahmān venne ucciso da un colpo di ascia, che i cronisti cristiani dicono gli fu inferto dallo stesso Carlo Martello.
L'esercito musulmano allora cessò ogni resistenza, lasciando in mano ai Franchi le tende, i guerrieri feriti, le armi e il bottino razziato in Aquitania.
Le fonti arabe danno una cronaca significativamente diversa della battaglia. I combattimenti sarebbero stati sospesi al tramonto e ripresi all'alba. Nella nuova giornata di scontri i cavalieri avrebbero fatto breccia nel centro della fanteria cristiana, ma ad un tratto si sparse per le loro file la voce che i nemici stavano saccheggiando l'accampamento e molti guerrieri corsero a proteggere le tende per timore di perdere il bottino incustodito. L'intero esercito poi, vedendo la loro fuga, ne fu turbato e abbandonò le posizioni.
Il succo del resoconto arabo è, ovviamente, che la colpa della sconfitta sia da attribuirsi non al valore dei Franchi, ma alla cupidigia degli arabi stessi, puniti in un certo senso da Dio per non essere stati fino in fondo dei veri credenti. Fatto sta che le cronache franche fecero risalire a 1.007 i caduti fra i cristiani e all'incredibile cifra di 375.000 le perdite dei nemici.
Entrambe le cifre peccano senz'altro per difetto e per eccesso. Certamente Carlo Martello diede prova di essere un ottimo comandante e di aver fatto assumere al proprio esercito l'ordinamento migliore per arrestare l'impetuosa cavalleria nemica, il che non è poco, se si considera l'epoca barbara in cui si combatté la battaglia di Poitiers e il fatto che fra i Germani e i Franchi non era certamente coltivata l'arte della strategia militare come al tempo dell'Ellenismo o del I secolo avanti Cristo..

Gli albori del feudalesimo
Dall'esperienza della battaglia Carlo trasse anche la convinzione che i Franchi dovessero dotarsi di una robusta cavalleria pesante ed escogitò il sistema militare, che con suo nipote Carlo Magno sarebbe diventato poi anche politico, del vassallaggio.
A chi gli giurava fedeltà personale e prometteva di combattere per lui, dava in concessione un appezzamento di terreno – l'unica ricchezza in termini reali nell'alto Medioevo – detto feudum o beneficium, con i cui proventi l'uomo poteva mantenere un cavallo e procurarsi le necessarie armi pesanti e costosissime.
Gli eserciti successivi del periodo feudale conobbero dunque sempre meno le siepi di fanteria, come a Poitiers, e sempre di più le falangi della cavalleria pesante.
Conclusione semiseria
Non potremo mai sapere a quanto ammontarono le perdite dei saraceni nella battaglia di Poitiers. Certamente dovettero essere terribili, se lo scontro sarebbe stato poi ricordato dagli arabi come balàt ash-shuhudà, بلاط الشهداء, il «Lastricato dei martiri della fede».
Per la prima volta dopo oltre un secolo di successi l'Islam aveva conosciuto un'amara sconfitta in Occidente: ci sarebbero state altre scorrerie, altre vittorie e altri disastri, ma mai più i musulmani furono in grado di organizzare una spedizione altrettanto potente diretta verso il cuore dell'Europa, come quella distrutta dall'esercito germanico.cristiano a Poitiers il 25 ottobre dell'anno 732, per il calendario arabo l'1 Ramadan del 114.
Una curiosità: uno dei tanti cronisti della battaglia di Poitiers, Isidoro Pacensis, detto anche Isidoro di Beja perché vescovo di quella diocesi, un monaco lusitano che fiorì nell'VIII secolo, usò per la prima volta nel continente, in due passi successivi, l'aggettivo europenses per identificare i popoli che si opponevano all'avanzata araba:
«Prospiciunt Europenses Araba tentoria ordinata, nescientes cuncta esse pervacua».
«Europenses vero […], spoliis tantum et manubiis decenter divisis, in suas se laeti recipiunt patrias».
Certo sarebbe assai bello nutrire ancora le passate certezze e leggere nella battaglia di Poitiers il forte vagito di un'Europa nuova e gagliarda che nasceva prepotente dalle spente rovine di un impero romano ormai sepolto apportando la linfa, non più demolitoria, ma costruttiva delle giovani stirpi germaniche.
Quelle vecchie certezze, fondate su poche date facili a tenere a memoria e utili ad alimentare una identità sovranazionale, su cui riposavano i nostri ingenui giudizi storici: la caduta dell'Impero romano che pone fine all'età antica, il papato che ne riprende e salva la tradizione, l'anno Mille che fa ripartire l'Europa, la scoperta dell'America e l'espandersi della civiltà europea ad altri continenti, eccetera eccetera.
No, non è più quel tempo; e così, tramontato ogni mito, alla visione romantica di Carlo Martello che, precedendo i paladini della saga carolingia, senza Durlindana e Olifante, ma armato di francesca, sfonda il cranio del perfido Abd al-Rahmān e salva l'Europa altrimenti destinata a diventare una nuova provincia musulmana, non ci resta che sostituirle la versione dissacrante ed eroicomica di Fabrizio De Andrè in quel capolavoro di ironia che è la canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers :
Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra
cingendolo d'allor
Prima intestazione
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Seconda intestazione
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